"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 26 agosto 2012

IL VENGELO DELLA DOMENICA. COMMENTO DI DON UMBERTO COCCONI.








Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno mercoledi 26 agosto 2012 alle ore 14,10

Dal Vangelo secondo Giovanni: Molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
 
Se dopo il segno della moltiplicazione dei pani la folla desidera fare di Gesù un re, ora, dopo aver ascoltato le sue parole nella sinagoga di Cafarnao, che svelano il vero senso del miracolo  e il desiderio di farsi Pane di vita con il suo corpo per la salvezza del mondo, tutti mormorano contro di lui perché il suo linguaggio risulta esser duro, non più consono alle loro aspettative. Gesù intende dire alla folla: “Guardate che il vostro bisogno di pienezza è più grande della vostra fame naturale di pane”; infatti abbiamo pane in abbondanza, ma spesso ci manca il gusto del vivere. Anche se la vita ci va complessivamente bene, ciò non basta a darle un senso, un significato che davvero ci soddisfi per questo Gesù sembra dire a chi lo ascolta: “Se lasci entrare me come risposta al tuo bisogno, potrai veramente trovare quello per cui sei nato, quello che ciascuno di noi desidera per sé e per le persone che ama”. E’ qui che appare ancora una volta l’irriducibilità di Gesù, in tutta la sua forza: non accetta di essere annacquato, addomesticato, stiracchiato a piacimento, non si piega alle nostre aspettative. Se noi ci accontentiamo del pane che sfama per un solo giorno, lui invece vuole donarci il Pane che dà la vita eterna. Noi, il più delle volte, “riduciamo” i nostri desideri, ossia  l’umano, nella sua verità profonda,  al livello dei nostri bisogni.
 
Gesù punta sempre “più in alto”, non abbassa l’asticella per venire incontro alle nostre aspettative, ma ci spinge ad osare di più. Ieri come oggi, anche noi abbiamo preso l’abitudine di mormorare contro Gesù dicendo: “Ma che cosa vuole?”. E Gesù, di fronte all’incredulità, allo scandalo, davanti alle richieste ossessive di “miracoli”, non fa neppure un segno per accreditarsi agli occhi di chi, in realtà, si rifiuta di accettarlo o perlomeno di mettere in discussione le attese ed opinioni su di lui. Gesù non scende a compromessi, neppure  con i suoi amici, ai quali non dice: “Almeno voi restate qui, non lasciatemi solo”. No e rilancia la sfida: “Volete andarvene anche voi?”. In questa domanda c’è tutto il rispetto di Gesù per la libertà degli apostoli e di ogni persona che si rapporta a lui. «Gesù non risparmia loro la libertà, non risponde al loro posto. Anzi li provoca in modo tale che siano loro a rispondere, a prendere consapevolezza di quello che hanno vissuto, a darsi le ragioni per rimanere» (don Luigi Giussani). Nelle parole di Pietro possiamo leggere :  “Anche se non comprendiamo quello che dici  - perché siamo semplici pescatori, non siamo teologi - , dal Tuo sguardo che ci fa sognare, parli al nostro cuore.
 
 Le tue parole sono vita, ci scaldano, danno un senso di pienezza al nostro desiderio di vita vera e con la tua presenza, ci nutri, prendendoti cura di noi”. E’ grande Pietro a ribaltare tutte le pretese “scientifiche” dei nostri ragionamenti quando dice:  «Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». E’ proprio perché crediamo, ti possiamo conoscere! Noi, invece, uomini della modernità razionalista e scientista, figli del metodo sperimentale, affermiamo che a fondamento del credere o del non credere ci deve essere essenzialmente il conoscere e il sapere dimostrativo. Pietro invece sembra dirci: “Guarda, non conoscerai mai Gesù se prima di tutto non ti fidi di lui. Lasciati provocare dalla sua parola e dal suo stile di vita. Non analizzarlo secondo la tua ottica, secondo le tue visioni di pensiero. Lui non si fa rinchiudere nei tuoi ragionamenti. Solo se ti apri a lui e gli dai fiducia, saprai chi è veramente. Lo conoscerai come lui è e non come tu pretendi che sia”. Anche un moderno filosofo come Edmund Husserl, quando parla del modo corretto di indagare sul reale, sulle cose, usa il termine epochè, che significa “sospensione del giudizio”.  Apri la tua mente a ciò che si sta manifestando davanti a te! Non bloccare l’essere nel suo darsi, perché solo così avviene la vera conoscenza, altrimenti rischiamo di rimanere prigionieri del nostro soggettivismo. Perché “vediamo” le cose dal nostro punto di vista, non come esse si mostrano veramente, in tutta la loro ricchezza, ma come le percepiamo. Il “credere”, invece, fa fare un salto di qualità nella conoscenza del reale: “sospendendo il giudizio” liberiamo la mente dal pre-giudizio, ossia da tutto ciò che ci impedisce di vedere con occhi trasparenti e puri le cose e le persone. Occorre un atteggiamento di accoglienza vera, in fin dei conti ciò è una modalità dell’amore; del resto, nel linguaggio biblico, “conoscenza” equivale sempre a relazione profonda, intima, come quella sponsale tra l’uomo e la donna.
 
 E’ paradossale, tutto questo? Certo, e non potrebbe essere diversamente: è questa la modalità di comunicazione fra Dio e l’uomo. Non è forse paradossale che proprio mentre Gesù si fa conoscere, usando un linguaggio “senza se e senza ma”, categorico, la folla mormori, non si fidi più di  lui, e lo stesso accada perfino tra  i suoi amici e discepoli, i compagni più assidui? Dietro alle parole di Pietro – «da chi andremo?» – c’è però la forza, la profondità unica dell’esperienza vissuta con il maestro di Nazaret, che neppure il buio, la confusione, la solitudine che ora agitano anche il cuore di Pietro possono cancellare. Per mesi, per anni, Pietro ha vissuto a fianco di Gesù, giungendo a cogliere qualcosa del mistero che si celava nella sua persona. Pensate che il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti, fosse quello delle guarigioni fisiche straordinarie? Il miracolo più grande, ai loro occhi, era il suo Sguardo, al quale non potevano sottrarsi. «Non c’è nulla che convinca l’uomo, come uno sguardo che afferri e riconosca ciò che esso è, che scopra l’uomo a se stesso» (don Luigi Giussani). Pietro si è sentito penetrato e accolto nella sua umanità da questo sguardo, che lo accettava e lo amava così com’era. Se non abbiamo incontrato questo sguardo, se non abbiamo fatto una simile esperienza di vita con Gesù, quando arriverà il momento della difficoltà, della malattia, della crisi, qualsiasi imprevisto, qualsiasi sbaglio, qualsiasi scandalo si trasformerà in tragedia.
 
 L’io del credente non è più potente perché è “dalla parte della maggioranza”, ma perché la sua consistenza è fondata totalmente sulla relazione con Gesù, sulla fiducia riposta in lui. E che cosa rende Gesù così irriducibile da non cedere a compromessi?  Perché arriva ad accettare di restare solo? Soltanto il legame ultimo con il Padre può renderlo così libero e determinato. E’ la coscienza del suo essere figlio che lo rende capace di fare la volontà del Padre e non quella degli uomini. Nulla Lo può separare dal Padre. Senza la consapevolezza profonda di questo legame sostanziale, con il Padre della Vita, saremo sempre esposti ai “mille venti” della nostra fragilità. Abbiamo bisogno di una Presenza come la sua nella nostra vita di ogni giorno. E abbiamo anche bisogno di uomini e donne che gli assomiglino: non persone pronte a scendere a compromessi, ma veri amici, compagni di strada che ci conoscano e ci accettino, e che insieme ci aiutino a non smarrire la via, l’orientamento verso una vita vera e piena.
 
Il film di questa settimana  “Ora mi posso fidare” è davvero originale perché è stato girato in Ciad dagli amici delGruppo mission di Parma. Il film si apre con la scena iniziale della sala d’attesa dell’aeroporto di Linate. Il volo ci stava aspettando: destinazione Ciad. Ormai le ansie della partenza si diffondevano tra noi, non tanto per le paure fugaci legate all’aereo, quanto perché d’un tratto ci siamo accorti che poco, troppo poco, conoscevano del posto in cui saremmo giunti. Forse il venerdì sera prima della partenza, invece di  uscire per salutare amici che mal comprendevano i motivi della nostra partenza, avremmo dovuto rimanere in casa, magari accendere il computer  e cercare tra le mille pagine web per soddisfare la nostra sete di notizie – che a dir la verità regalano più paure e dubbi, di solito, che risposte. Ma a chi credere?  A cosa credere? Cliccando “Ciad” su Google  emergono storie di massacri, di governi cacciati  e instabili, di pochi nomadi e di elefanti in estinzione. Ma sarà davvero così il Ciad? Sarà solo così? E la popolazione e i bambini, come sono? I bambini andranno a scuola, si suppone ...  Ciò che sapevamo quella mattina in aeroporto era solo che il missionario comboniano, Filippo, ci stava aspettando. Ci aveva avvertiti  di qualche noia, delle varie zanzare... Ma ad ogni nostra domanda nelle e-mail aveva sempre evitato le risposte dirette, limitandosi a scrivere: “Tanto ... non  preoccupatevi ... non abbiate paura!”. Sì, Filippo stava dando la sua vita ai più poveri, ai dimenticati da tutti,  ai più  isolati tra le savane africane... Ma... Potevamo fidarci di lui? La referente dell’associazione diceva di andare senza fare troppe domande e senza cercare troppe giustificazioni. Infatti non avevamo molte risposte alle nostre domande, a quei pensieri che somigliavano a erbacce infestanti nelle nostre menti.  Ma questo comunque non ci ha impedito di essere li,  credendo alle parole di Filippo, senza conoscere molto della realtà che andavamo a incontrare. E ora, al ritorno, cosa è rimasto di tutte le nostre ansie? Solo la consapevolezza di aver vissuto venti giorni pieni di avventura, senza conoscere preventivamente tante cose e senza la pretesa di conoscerle... E’ stato talmente bello che ci dispiacque ritornare a casa. Ma eravamo felici: tra le tante esperienze, abbiamo anche scoperto quanto è piacevole avere fede. 
(DON UMBERTO COCCONI)
 
 
 

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