"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 7 ottobre 2012

Il Vangelo della domenica. Commento di don Umberto Cocconi.





Pubblicato da Don Umberto Cocconi il giorno sabato 7 ottobre 2012 alle ore 7,51

Dal Vangelo secondo Marco.  Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall'inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio». Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s'indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
Non è forse l’orgoglio il vero “inquilino” di un cuore indurito? Quando non riconosciamo i nostri sbagli e i nostri torti non riusciamo più a comprendere le ragioni degli altri perché il cuore è divenuto impermeabile e inaccessibile, ripiegato su se stesso, incapace di aprirsi all’altro con pietà e tenerezza. In Questa situazione è impossibile avvicinarsi alle ragioni altrui: non c’è alcun passo di avvicinamento che favorisca davvero la comprensione e il dialogo. Avere il cuore indurito significa restare prigionieri del proprio io; avere un “cuore di carne”, al contrario - sono espressioni care ai profeti -  significa potersi aprire all’incontro.  Mosè sembra aver capito le tante debolezze dell’uomo, le sue fragilità, la sua incapacità di dimorare nell’amore per sempre: i precetti da lui ispirati si adattano alla durezza e ai limiti del cuore umano, abbassano per così dire l’asticella del salto. Gesù, al contrario, ci chiama ad alzare l’asticella al suo livello, al livello dell’amore trinitario, dell’amore infinito. Quale fiducia nell’essere umano! L’uomo e la donna possono vivere un amore che abbia la stessa altezza, lunghezza, ampiezza, profondità di Dio. “Essere una sola carne” è un linguaggio nuziale che indica una reciproca appartenenza: il corpo diventa il luogo del dono di sè.
 
Anche ai nostri giorni succede che uno o una lasci la casa del padre e della madre, ma quando lo fa (spesso in età non giovanissima...) non è per vivere una storia con un’altra persona, ma per vivere da solo o da sola, per cercare innanzitutto la propria indipendenza, la propria autonomia. Già è difficile accettare l’idea di coabitare con qualcuno, figuriamoci la prospettiva di diventare “una carne sola” con lei o con lui. Oggi è diventato più faticoso condividere, nella dimensione della stabilità e dell’unicità, una storia, una vita di relazione e di scambio. Ci si tocca, ci si sfiora, ma non ci si lascia “contaminare” dall’altro, si preferisce stare soli con il proprio “io”, non si è disposti a rimanere nell’amore. Non vogliamo diventare un “noi” perché pensiamo che amare sia cercare essenzialmente il nostro bene, la nostra gratificazione, invece amare è essenzialmente cercare il bene dell’altro. Solo in questo modo può si può realizzare anche l’amore verso se stessi.
 
Ed ecco che, ancora una volta, Gesù reclamizza un “mondo alla rovescia”, proponendo come modello di autenticità qualcosa di paradossale, di impensabile. Soltanto se l’adulto diventerà come un bambino, dice, potrà entrare nel regno, nella vita di Dio. Di solito, è il bambino ad imitare l’adulto, perché vuol essere come lui. Gesù invece afferma che siamo noi a dover diventare come i bambini: nel cuore non ancora indurito del bambino abitano la fantasia, la poesia, l’emozione, la disponibilità, di certo non il risentimento. Noi invece siamo sempre più calcolatori, animati da un senso critico costante che ci impedisce di vedere la bellezza delle cose; i bambini al contrario sono abitati dallo stupore, dalla sincerità, dalla fiducia. Se cadono si rialzano, magari approfittando di una mano tesa versa di loro. Noi invece, quando cadiamo, facciamo una gran fatica a rialzarci.
 
“Pietà”  è un film o meglio una fiaba oscura contro il dio-denaro, contro la sua forza seducente che irretisce tutti. «Titoli di testa. Un giovane in sedia a rotelle si impicca. Urlo disperato di donna fuori campo. Immagine astratta di una lisca di pesce nel piatto. Poi un uomo, il protagonista Kang-Do, in un letto si contorce, masturbandosi. La solitudine di una morte e la solitudine del sesso: un brivido lugubre da inversione termica ci sprofonda nell’inferno glaciale di una condizione disumana, vaccinata contro qualsiasi affetto possibile, dal cuore di pietra» (Nino Dolfo). Il film racconta la storia di Kang-Do, un uomo giovane, bello, con un giubbotto di pelle griffato, cinico e perverso, che lavora recuperando crediti per uno strozzino. Kang-Do non ha famiglia, né amici e ancor meno scrupoli, soprattutto quando si tratta di reclamare il dovuto presso i debitori.
 
E’ spietato, gelido, capace di mutilare e uccidere chi non paga i suoi debiti. La storia  si svolge nella periferia operaia di Seul, ormai stravolta dai grattacieli delle corporations.  Il regista sudcoreano Kim Ki-Duk afferma: «E' vero, insieme ai due protagonisti in carne e ossa, il denaro è al centro del mio film. Voglio mostrare il suo vero volto, la tragedia del capitalismo estremo. Il denaro, va detto, non è condannabile in sé e per sé. Può avere un volto positivo o il volto negativo e perverso che viene appunto mostrato nel mio film». Il regista ha messo in relazione il capitalismo, il grande morbo che tutto devasta, con le grandi vicende primordiali raccontate dalla Tragedia greca. Un giorno, per strada, il protagonista del film è inseguito da una donna di mezza età, ancora bella, che dice di essere sua madre. Forse la madre che l’ha abbandonato trent’anni prima? Oppure una mater dolorosa portatrice di vendetta e il suo presunto amore, sarà allora un “cavallo di Troia”? La prima reazione del protagonista è furibonda, ma la donna  non si arrende. Come l’Edipo della tragedia greca, il giovane instaura con lei un rapporto ambiguo: dapprima non le crede e quasi la violenta, poi sta al gioco e si lascia coccolare come un bambino. Da quel preciso momento qualcosa di importante nel suo cuore si mette in movimento e mentre l’amore si fa strada, pian piano, viene meno quella spietata freddezza che gli consentiva di svolgere il suo “lavoro da cani”.
 
Così comincia a provare pietà per le vittime e a cercare di cambiare vita. Anche per quest’anima persa, dunque, è giunto il momento della Grazia,  dell’incontro che redime e salva, nonostante il prezzo  della sua redenzione sia stato altissimo. Il resto della storia è giusto lasciarla alla meraviglia dello spettatore, ricca com’è di colpi di scena e capace di concentrare in un tempo breve di racconto (cento minuti) la rivoluzione di un’anima. Ciò che sembra portare il film ad alti livelli artistici – oltre a immagini capaci di sintetizzare con grande forza personaggi e situazioni – è il clima di latente mistero religioso che lo avvolge dall’inizio alla fine, nell’elaborazione dei temi eterni temi della dannazione e della salvezza. Alla fine sulle note struggenti di un “Kyrie eleison”, lo sguardo spazia su una terra divorata dal dolore e dalla cupa “necessità dominante” della vendetta. Riferendosi al titolo, “Pietà”, il regista ha dichiarato: «Sono stato due volte in Vaticano, e ho visto questo capolavoro di Michelangelo. Non voglio dire nulla a proposito della bellezza e del valore dell’opera, ma mi riferisco al gesto della Vergine Maria, che abbraccia il proprio figlio morto sulla croce. L’immagine di questo abbraccio, che mi sono portato dentro per tanti anni, è l’immagine di un abbraccio all’intera umanità e la comprensione e condivisione di questo dolore.

(DON UMBERTO COCCONI)

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