"Al Condominni" poesia brillante in dialetto parmigiano di Bruno Pedraneschi,letta da Enrico Maletti

Estratto di un minuto del doppiaggio in dialetto parmigiano, realizzato nell'estate del 1996, tratto dal film "Ombre rosse" (1939) di John Ford. La voce di Ringo (John Wayne) è di Enrico Maletti


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domenica 9 giugno 2013

Il Vangelo della domenica. Commento di don Umberto Cocconi.


Pubblicato da Don Umberto Cocconi   il giorno domenica 9 giugno 2013 alle ore  7,40

Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!». E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre (vangelo secondo Luca)

Alle porte di una città chiamata Nain si incontrano due cortei di persone: Gesù, che giunge da Cafarnao, accompagnato dai suoi discepoli e da una grande folla, e il corteo funebre di un giovane, mestamente seguito dalla madre vedova e da molta gente della città. Luogo della convivenza e della solidarietà, ogni città, tuttavia, genera vita per consegnarla, prima o poi, ai sepolcri. Una comunità spera e gioisce per ogni vita che nasce, ma il lieto evento avrà fatalmente il suo “contraltare” nella tristezza del lamento funebre. Neppure Nain, il cui nome significa “luogo delle delizie”, sfugge alla dura fatalità di questa legge. Il corteo funebre, che sta uscendo dalla città, è come un fiume in piena che travolge la vita e trascina sottoterra ogni speranza, perché è morto l’unico figlio di una mamma, per di più vedova. E’ una donna senza sposo, priva di diritti e di identità, indifesa, privata anche dell’amato frutto del suo grembo. Per questa donna ogni speranza si è spenta, è definitivamente morta con l’unico figlio. Nel racconto, la donna non pronuncia alcuna parola, ha solo lacrime da versare: il suo volto, che non vediamo ma possiamo immaginare, è il volto stesso del dolore, che lascia muti e impietriti.
 
 Alla porta della città, punto di incontro tra i due cortei, Gesù vede subito la donna e volge il suo sguardo verso di lei: ne nasce una comunicazione profonda. È lo sguardo che orienta il cuore, lo fa uscire da sé stesso e lo apre all’incontro con l’altro. Da quello sguardo, inizia per Gesù un cammino: egli si lascia coinvolgere e vive in sé, commuovendosi intensamente, il dolore della donna in lutto. Gesù ha preso l’iniziativa senza essere sollecitato da nessuno, mosso unicamente dallo sguardo di quella “mater dolorosa”. E’ un presentimento, il suo? Viene da pensarlo. Una cosa è certa: Gesù ha in sé i medesimi sentimenti del Padre, le cui “viscere di misericordia” fremono per la commozione davanti al triste spettacolo della condizione dei suoi figli. Ed ecco che Gesù si accosta al legno della bara, quasi un’allusione al legno della croce  che avrebbe dovuto portare su di sé per annientare il potere della morte, simbolo di tutte le miserie umane. Perciò si rivolge alla donna dicendole, tra lo stupore generale: “Non piangere!”. Parole che magari è capitato anche a noi di rivolgere (o di trattenere nel cuore, sentendone la vanità) a una persona in lutto e in lacrime: povere parole impotenti, incapaci di cambiare la situazione. Come si fa a non piangere davanti alla morte? Gesù conosce la realtà del dolore e delle lacrime: piangerà sulla città di Gerusalemme, sulla tomba di Lazzaro e nell’orto degli ulivi.
 
Saprà fino in fondo che cosa vuol dire piangere quando ci si sente soli, angosciati e sconfitti. Anche qui, a Nain, la morte sembra celebrare il suo ennesimo trionfo sulla vita e all’uomo non resta, inevitabilmente, che lacrimare e disperarsi. E allora, cosa fa Gesù? Un gesto scandaloso: tocca quello che ai suoi tempi era intoccabile, perché  comunicava il massimo dell’impurità, ovvero tocca la bara, e il corteo diretto al sepolcro si ferma all’improvviso. Nessuno dice nulla, ma non c’è dubbio che questo gesto semina un grande sconcerto. Tutti sono come bloccati, paralizzati da una forza irresistibile, superiore a ogni altra. Poi Gesù parla, all’imperativo: “Giovinetto, dico a te, alzati!”. Si può dare un ordine ad un morto? Ma chi parla – ci dice Luca - è “il Signore”, il Signore della vita, e la sua Parola è la parola creatrice, che dal nulla ha chiamato all’esistenza tutte le cose! Dio è capace di suscitare la vita anche in ciò che è spento. Cosa succede allora? L’impossibile!  Il morto si leva, si alza e comincia a parlare. Come racconta la sequenza di Pasqua, vita e morte si sono affrontate in un prodigioso duello, e la vita ha vinto la morte! Dal combattimento tra la vita e la morte, tra la Parola e il silenzio, la Parola è uscita vincitrice.
 
Colui che era morto, che era immobile, ora siede vittorioso: da muto diviene parlante (o Dio, “se tu non mi parli io sono come morto”, dice il salmista). Gesù prende tra le braccia il giovane e lo ridona alla madre, e in quella casa, in quella città, fiorisce di nuovo la vita, la speranza, il futuro. Gli occhi della folla, infatti, si sono aperti e possono contemplare l’opera di Dio: ne nascono la gioia e l’urgenza di annunciare e testimoniare le meraviglie del Signore. La risurrezione del fanciullo, quindi, restituisce la vita non solo alla madre ma all’intera comunità che, per questo, diventa “parlante”, capace di relazione e di annuncio, dunque pienamente vitale. Non per nulla il nome della città dove avviene  il miracolo è “Nain, Delizia”: quasi un richiamo all’Eden, al paradiso terrestre. E nella donna, la sposa rimasta senza marito, la madre rimasta senza il suo unico figlio, sembra ritratta l’intera umanità, drammaticamente lontana dal suo Sposo e Signore. Senza di Lui – lo Sposo della Chiesa - l’umanità non può che generare figli destinati alla morte.
 
E destinata alla morte sembra anche la Roma, di cui ci racconta Sorrentino nel suo ultimo film “La Grande Bellezza”. E’ decisamente un film sulla morte di un’epoca, dove impennate di sublime cattiveria si alternano a momenti di infinita malinconia. L’esistenza appare tutta «sedimentata sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio, il sentimento, l’emozione e la paura». Tutto è sepolto nell’eterno bla bla bla di questi tempi vacui, inutili, annoiati, inermi e vuoti. In questo viaggio “inventato” eppure così vero, ci accompagna Jep Gambardella, re della mondanità capitolina, sempre al centro della festa come si conviene a un “animale notturno” e festaiolo, osservatore e frequentatore di un'umanità vacua e disfatta, potente e deprimente. Il regista Sorrentino filma Roma come una necropoli, abitata da morti viventi, che si compiacciono della loro putrefazione. Qui Roma è davvero “una Babilonia disperata”. Siamo di fronte a «una splendida e amarissima liturgia laica sul niente che siamo, una riflessione surreale e antinarrativa non solo sull'Italia contemporanea, ma anche sulla condizione umana, e, soprattutto, sul senso, sempre sfuggente, di un’eternità che è sempre un passo indietro» (Filiberto Molossi). Tuttavia, c’è una sorta di rinascita, la ricerca di una nuova vita, pregustata nel silenzio, nel vuoto, nella solitudine dell’alba, quando il protagonista insonne cammina nella città, a quell’ora deserta, nella speranza di tornare di nuovo a scrivere. Ma non sarà che Jep ha scoperto di aver sprecato la vita e di aver venduto la sua sensibilità in cambio di vuota superficialità? Non vuole forse mostrarci come buttiamo al vento la nostra individualità, per seguire una marmaglia assetata di fama e dedita al conformismo esasperato, solo per arrivare a farci accettare da questo misero mondo? Questa è la morte della nostra identità! La nostra capacità di amare è sigillata in una bara. Chi ci libererà da questo corpo votato alla morte?
(DON UMBERTO COCCONI)
 

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